Qui nel Ponente alle origini la politica usava la “pruderie” come metro di giudizio e un candidato chiaccherato o disinibito usciva immediatamente di scena anche per un semplice atteggiamento sgradito ai custodi dell’etica pubblica, laica o religiosa.

L’aneddotica al riguardo è degna di Germi o di Vanzina.

Poi al culto della moralità è subentrato quello della giustizia, in primo tempo giacobina e in seguito garantista, dalle manette si è passati all’ “avvertimento” giudiziario.

Fino a quando la politica per difendersi dalla giustizia-lumaca ha imboccato con scarsi risultati le scorciatoie dei ricorsi giudiziari di candidabilità, di compatibilità e di conflitto di interessi per poi felicemente approdare al paradosso manicheo della “legalità”, un metro di giudizio autoreferenziale, sbrigativo e di semplice applicazione.

Torquemada è morto, anche Salomone è morto, Kafka, invece, è risorto per scrivere il sequel del suo “Processo”, che intitolerei “Catarsi”, nel quale la politica si purifica immolando capri espiatori sull’altare -non della morale e neppure della legge- ma di una divinità che sovrasta entrambe, la “legalità”.

Una entità metafisica che nessuno ha mai visto ma che burocrati e scribacchini in veste di apostoli descrivono nei protocolli evangelici a lei dedicati.

 Tutto questo ha reso strabica la giustizia perché con un occhio interviene a posteriori su un illecito specifico che a seconda della giurisdizione può essere penale o civile o amministrativo, mentre con l’altro guarda a priori all’illegale generico e diffuso che non ha cognome ma solamente il marchio.

Fino a ieri andava forte il timbro di mafioso, ramo ndrangheta, al punto che la colonia imperiese è stata annessa off-shore alla Calabria come sesta provincia dove atterrerebbero boss e capitali di provenienza illecita.

Ma oggi la pole position appartiene alla illegalità economica che colpisce non i fatti ma le intenzioni perché è costituzionalmente profilattica e quindi può spaziare in lungo e in largo scoprendo e -soprattutto- coprendo fatti e misfatti ambientali, urbanistici, edilizi, commerciali e via trafficando.

Tutta colpa della “legalità”, che sta alla legittimità come il moralismo sta alla morale, per cui l’agenda la detta non la legge ma lo scandalo descritto da giornali, televisione e ultimamente dai tablet.

E’ vero che “oportet ut scandala eveniant” ma devono essere autentici, non bufale della politica che pascolano tranquillamente nella terra di nessuno tra il dolo penale e la colpa gravissima, civile e amministrativa.

Penso al caso Millennium che da dieci anni nel cuore di Arma di Taggia ruba alla fruizione pubblica dei residenti e alla valorizzazione economica degli imprenditori del turismo e del commercio uno spazio di vitale importanza.

Il mariuolo che è scappato con la cassa lo stanno processando a Milano e la metastasi nazionale dell’anonima lussemburghese che ha drenato i soldi è fallita, ma la politica che ha spalancato le porte agli illeciti altrui è coperta dalla “legalità” propria, uno scudo di genere che funziona quando la responsabilità è collettiva, cioè quando riguarda un Consiglio di Amministrazione, mentre cessa quando è individuale in capo a un Amministratore Unico in veste di capro espiatorio sacrificale.

Penso al caso “Outlet The Mall” in valle Armea nel quale tutto è a posto e niente in ordine, come nel film di Lina Wertmüller, dove ad essere a posto è la “legalità” di promotori, di facilitatori e di tifosi al di sopra di ogni sospetto mentre a non essere in ordine sono le carte edilizie della D.I.A. e quelle urbanistiche della variante della zona industriale D.1 di competenza regionale.

Ma penso anche al caso “Porti”, per il quale il plurale è d’obbligo perché tocca, con tonalità diverse, Imperia, Sanremo, Ventimiglia, San Lorenzo, Santo Stefano e Ospedaletti, ma che mette insieme realtà assolutamente negative delle quali la politica dovrebbe rispondere non solo nelle cabine elettorali ma nelle aule della giustizia che non vive di solo penale come di solo pane non vive l’uomo.

L’elenco di casi come questi è molto lungo, casi che lo strabismo giudiziario non permette di vedere perché i protagonisti sono protetti dallo scudo della “legalità” formale, ma ancor più lungo è quello dello sterminato gregge delle pecore nere, alle quali si nega ciò che ad altri è consentito, figliastri malvisti e tollerati.

Penso al caso “Lotto 6”, a Portosole, al caso “Ex SATI”, all’Auditorium Alfano e via dicendo, tasselli del mosaico di una “legalità” alla rovescia, perché il privato deve sempre avere torto e finire, con le tre ultime parole che la vittima sacrificale della “legalità” nel “Processo” di Kafka pronuncia prima di morire pugnalata: “Come un cane”.